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La parodontite: cos’è e come curarla

La parodontite: cos’è

La parodontite è un disturbo dentale piuttosto frequente che interessa il parodonto, ovvero la struttura di sostegno del dente che comprende le gengive e l’osso alveolare di supporto.

Se non curata, la parodontite può portare alla distruzione dei tessuti che assicurano sostegno e stabilità ai denti.

Spesso il primo segnale di allarme e preoccupazione è dato dall’aumento della mobilità dentale.

In assenza di trattamenti adeguati le complicazioni della parodontite posso portare alla caduta dei denti.

Le cause della parodontite

A prescindere dai problemi di salute che possono insorgere a carico dei denti, all’interno della nostra bocca numerosi fattori possono causare problemi di salute del parodonto, cioè dell’insieme dei tessuti di sostegno del dente (gengiva, mucosa alveolare, osso alveolare).

Tali problematiche si manifestano inizialmente a carico delle gengive, con lo sviluppo di una infiammazione superficiale.

Tale infiammazione, se sottovalutata nel tempo, può aggravarsi, estendendosi ai tessuti più profondi, fino ad arrivare alla completa compromissione del sostegno osseo degli elementi dentari, che possono così cadere.

Le patologie che si manifestano al parodonto sono affezioni molto particolari e complesse.

Esse sono risultato della interazione tra fattori di aggregazione batterica, difese dell’ospite e fattori di rischio (fumo, patologie del sistema immunitario, scompensi metabolici, disbiosi, etc.).

La gengivite

Il punto di partenza è una infiammazione gengivale superficiale, definita gengivite-

La gengivite si manifesta anche solo trascurando l’igiene orale quotidiana per 24 ore.

I sintomi sono principalmente un “fastidio” generalizzato più o meno intenso che si associa a lieve sanguinamento quando le gengive vengono stimolate.

Il primo errore che si commette è ridurre lo spazzolamento, pensando che sia il trauma meccanico a causare il sanguinamento, ma in realtà è la continua presenza di placca batterica sui denti che mantiene lo stato infiammatorio.

Una gengivite di questo tipo si risolve spontaneamente dopo un paio di giorni di attento e corretto uso di spazzolino e dentifricio, eventualmente integrato con un adeguato collutorio (su questo si può chiedere un consiglio al proprio dentista).

Le complicazioni della gengivite

Se però si sottovaluta la situazione, l’infiammazione tende a progredire e ad approfondirsi, andando a coinvolgere i tessuti gengivali sempre più in profondità e creando quelle che si definiscono tasche gengivali.

Le tasche gengivali sono zone in cui la gengiva infiammata non si “attacca” più biologicamente in modo corretto al dente o all’osso alveolare e dove si crea un circolo vizioso in cui l’accumulo di placca nella tasca gengivale viene sempre più facilitato dai danni che la stessa infiammazione ha causato.

Il dolore aumenta di intensità e frequenza e le gengive iniziano a sanguinare anche spontaneamente e non solo se stimolate. Può insorgere anche alitosi.

Quando l’infiammazione delle gengive diviene profonda e arriva all’osso alveolare le tasche diventano osteogengivali, perché ad essere compromesso è anche l’osso alveolare: si inizia a parlare di malattia parodonotale o parodontite.

La malattia parodontale

La malattia parodontale (nel passato comunemente nota come “piorrea”) tende così a cronicizzare ed evolvendosi causa la perdita dei denti per riduzione del supporto dell’osso alveolare che li sostiene nella mandibola.

Come detto prima, tale patologia si presenta come un’affezione molto complessa, che crea danni ai tessuti del parodonto.

Le cause sono sia diretta – i batteri si accumulano nelle tasche – sia indiretta, per le reazioni infiammatorie che insorgono proprio in difesa dei batteri che ne sono la causa.

In altri casi è il risultato dell’interazione tra fattori di aggregazione batterica, difese dell’ospite e fattori di rischio (fumo, patologie del sistema immunitario, scompensi metabolici, disbiosi, etc.).

La parodontite può essere ereditaria

Esiste purtroppo la possibile ereditarietà del problema, in quanto geneticamente può essere trasmessa una maggior suscettibilità dei tessuti orali ai batteri che causano malattia parodontale.

Tuttavia, fattore genetico non è determinante per l’insorgenza della patologia vera e propria se l’igiene orale domiciliare è corretta.

Come curare la parodontite

Non esiste un farmaco risolutivo per la patologia (se non per attenuarne i sintomi) ma una complessa strategia terapeutica che tenga conto dei molti fattori presenti e dell’individualità del paziente.

Ne risulta che le terapie non possono avere protocolli identici per ogni persona, ma vanno adattate e personalizzate per ogni caso specifico.

I migliori risultati nella cura si possono quindi ottenere dall’integrazione tra le più moderne pratiche odontoiatriche clinico-chirurgiche di rimozione e miglioramento dei fattori locali (placca, tartaro, condizioni anatomiche sfavorevoli come tasche ossee o gengivali) ed un approccio olistico volto al miglioramento della resistenza locale da parte dell’organismo a tali fattori locali.

In ogni caso, fondamentale per evitare di perdere i propri denti è una buona igiene orale domiciliare, non sottovalutando i primi sintomi (dolore e sanguinamento) e recandosi per un controllo dal proprio dentista periodicamente o anche fuori dal calendario programmato se i sintomi insorti non regredissero rapidamente con l’adozione o il ripristino di corrette manovre di igiene orale.

 

 

 

L’uso dell’antibiotico e dei probiotici in odontoiatria

L’uso dell’antibiotico e dei probiotici in odontoiatria è un argomento spesso dibattuto.
Una nota su cui già altre volte è stato posto l’accento è lo stretto rapporto che esiste tra la cavità orale ed il resto del tratto digerente.

Dallo sviluppo dello stomodeo (il primitivo tratto digerente dell’embrione durante la gestazione) si accrescono infatti tutti i vari tratti di tale apparato, cavità orale compresa.

Non può stupire quindi la stretta correlazione che c’è tra le alterazioni di salute delle gengive e la disbiosi (ovvero l’alterazione della flora intestinale), anche tenendo conto che gran parte del nostro sistema immunitario si trova nei tessuti intestinali.
Quando si deve ricorrere ad una terapia antibiotica una delle possibili conseguenze è
proprio lo sviluppo di disturbi disbiotici.
Una terapia antibiotica, infatti, se da un lato è fondamentale per risolvere un problema infettivo, al contempo modifica la flora batterica esplicando la sua azione sia nei confronti dei batteri “cattivi” responsabili di una infezione, sia dei microrganismi “buoni”, che regolano e mantengono l’equilibrio della microflora intestinale.
La flora batterica quindi, può alterarsi e causare la già citata disbiosi, uno stato che provoca effetti indesiderati correlati con maggiori difficoltà digestive, fino ad arrivare a veri e propri sintomi quali diarrea, dolori epigastrici, nausea, vomito.

Ma allora è meglio evitare di assumere antibiotici?

Certamente no, perché si tratta di un farmaco fondamentale nella cura di problematiche settiche; va semplicemente usato nel modo più corretto.
Innanzitutto l’antibiotico non è mai una terapia di automedicazione e deve sempre essere prescritto dal medico per un problema di salute ben identificato che abbia una patogenesi (cioè il proprio inizio) in relazione ad una infezione batterica. Infatti l’antibiotico non ha alcuna utilità nel controllo di una infezione che derivi dal contatto con agenti virali.
E’ quindi fondamentale una diagnosi corretta del problema prima di intervenire con il farmaco.
Capita a volte che pazienti che in passato siano ricorsi a terapia antibiotica per patologie a livello del cavo orale, si “autoprescrivano” il farmaco quando un problema di dolore si ripresenta, ma non sempre l’antibiotico è il giusto rimedio, perché dolori e lesioni a carico dei tessuti orali e dentali possono svilupparsi da cause diverse ad una infezione batterica primaria.
Poi è importantissimo seguire la posologia indicata e completare il ciclo di assunzione fino a quanto indicato, senza interromperlo precocemente solo perché i sintomi sono migliorati, per evitare la selezione di batteri antibiotico-resistenti.

Si deve ricorrere spesso ad antibiotici per patologie della bocca?

E’ frequente che a livello del cavo orale si sviluppino ascessi di derivazione batterica e che sia quindi richiesto l’utilizzo di un antibiotico per risolvere l’infezione ed evitare che i  tessuti orali vengano ulteriormente compromessi, ma è sempre bene che sia lo specialista a diagnosticare la necessità di una terapia farmacologica di tale tipo.
In caso di ascessi dentali di origine batterica l’utilizzo dell’antibiotico serve per eliminare il problema sintomatico locale nonché per evitare che l’infezione si propaghi e si estenda anche ad altre parti del corpo, sia attraverso i tessuti, sia attraverso il sistema vascolare.
Questa ipotesi di diffusione può mettere a rischio anche altri distretti ed altri organi,
soprattutto se esistono problemi di salute generale che riducono le capacità di difesa
immunitaria del paziente.
Esiste poi in alcuni casi la necessità di dover eseguire una terapia antibiotica di copertura preventiva dal rischio di sviluppo di infezioni, principalmente in caso di problemi cardiaci o di immunodeficienze, nonché come copertura preventiva e postuma in caso di interventi chirurgici più invasivi o di interventi di chirurgia implantare.

Ma come ridurre gli effetti di disbiosi spesso conseguenti ad una terapia antibiotica?

Considerato che l’antibiotico è un farmaco indispensabile in determinate condizioni e non se ne può evitare l’assunzione, l’ideale è associare sempre ad una terapia antibiotica una terapia con fermenti lattici arricchiti con probiotici, che svolgono principalmente due importanti funzioni di supporto.
La prima è quella di ricolonizzare con i batteri buoni i tratti intestinali in cui la flora
batterica viene eliminata.
La seconda funzione di supporto è quella di coadiuvare l’eliminazione delle molecole di farmaco non utili all’organismo. Volendo fare una metafora si potrebbe dire che usare l’antibiotico per debellare una infezione ė come se per spegnere un fuocherello nel bosco si aprisse a monte l’invaso di una diga, scaricando tutta l’acqua e allagando la valle.

Risulta fondamentale eliminare “l’acqua in eccesso” dopo che il fuocherello è spento!
A tale proposito è indicato anche il supporto con rimedi farmacologici drenanti che
facilitano l’eliminazione delle scorie derivanti dai farmaci, dei quali parleremo in un
prossimo articolo.
La terapia con probiotici andrebbe iniziata 2-3 giorni prima dell’inizio della terapia
antibiotica e proseguita per almeno 5-6gg dopo la fine della terapia stessa.

Ipersensibilità dei denti: cause e terapie

Nel corso della propria vita, la dentizione può modificare la propria sensibilità agli stimoli esterni che riceve nella quotidianità durante le funzioni di fonazione, respirazione, alimentazione.
Sia dal punto di vista anatomico che psicologico, ogni persona presenta individualità e peculiarità personali che lo mettono in condizioni favorevoli o meno di far fronte agli stimoli esterni, avendo quindi ognuno di noi i suoi punti di forza e i propri “punti deboli”!
Anche la bocca, come già in passato abbiamo visto, è per ogni persona un luogo
individuale che sfugge a qualsiasi possibilità di schematizzazione rigida.
Dal punto di vista della sensibilità ci sono quindi individui che da sempre hanno reazioni estreme o comunque molto acute, agli stimoli termici, soprattutto al freddo, e questo fa parte delle loro peculiarità. In genere chi presenta una tipologia dentale di ipersensibilità dentale (più correttamente definita in termini odontoiatrici “ipersensibilità dentinale”) sa da sempre che quando assume cibi o bevande molto fredde i suoi denti reagiscono con trasmissione di un “fastidio” che può addirittura assumere connotazione di dolore dentale, seppur di brevissima durata.
Altre persone invece notano improvvisamente, mentre fino al giorno prima mangiavano persino i cubetti di ghiaccio delle bibite, che i loro denti sono diventati sensibili quando lo stimolo introdotto supera una soglia termica che a loro stessi pare essere normale (ad esempio bere un bicchiere d’acqua dal frigorifero o lavarsi i denti con l’acqua del rubinetto).

Si dice allora che è comparsa ipersensibilità dentinale!

Tale fenomeno può presentarsi temporaneamente a causa di una transitoria infiammazione gengivale; quando è così, il problema si risolve spontaneamente in un paio di giorni di corretto spazzolamento domiciliare (magari con acqua tiepida per evitare il fastidio).
Quando invece la sensibilità tende a manifestarsi con continuità, magari con aumento anche della facilità con cui si sviluppa, il problema è meglio che venga analizzato dal dentista: è il momento di recarsi in studio!
Le cause dell’insorgenza di questo problema possono essere di natura puramente dentale, di natura gengivale oppure da un insieme di queste due situazioni.
La principale causa dentale origina dall’abrasione dello smalto del dente in corrispondenza della zona in cui il dente “entra” nella gengiva, le cosiddette lesioni “al colletto del dente”.
Spesso questa riduzione dello strato di smalto non ha motivazioni legate allo sviluppo di carie, che invece possono propagarsi più facilmente dopo che le lesioni dello smalto si manifestano. Una perdita dello smalto al colletto del dente deriva infatti primariamente da incorretti contatti occlusali che determinano una sollecitazione impropria del dente, da scorrette manovre di igiene orale che diventano troppo aggressive sullo smalto, da una alimentazione che tende a diminuire il pH della saliva, ovvero con alimenti che aumentino
il livello di acidità del cavo orale.
Quando lo smalto tende comunque ad usurarsi e ad assottigliarsi nella zona del colletto, la protezione offerta alle strutture dentali più profonde, e quindi anche alla polpa dentaria, si riduce, con un meccanismo fisico legato sia alla riduzione dello spessore che alle
microfratture che si formano nel corso dell’usura stessa del tessuto.
Possono quindi comparire sensibilizzazioni agli stimoli più forti e ripetuti che si esercitano direttamente sulla zona lesionata. In queste condizioni, cioè con la presenza di uno strato di smalto ancora presente, anche se ridotto, la situazione può essere tenuta sotto controllo, riducendo i fastidi legati alla sensibilità con l’uso quotidiano di dentifrici idonei, che  possono in parte compensare la minor protezione ormai presente.
Quando invece lo smalto viene ad essere completamente lesionato e risulta esposta la parte sottostante del dente, formata dalla dentina, è necessario eseguire una ricostruzione con materiali resinosi compositi della porzione di dente andata persa, per proteggere la polpa dentaria dove, attraverso la canalizzazione tubulare della dentina stessa, essa rischierebbe di venire in parte colonizzata dai microbi che date le loro ridotte dimensioni, riuscirebbero a passare attraverso tali tubuli.
Questo potrebbe portare ad una sensibilizzazione irreversibile per infiammazione cronica a carico della polpa, che non regredirebbe più nemmeno in caso di una ricostruzione adeguata eseguita in un secondo tempo.
Quando poi insieme al problema dentale ci si mettono anche le retrazioni gengivali la
patologia di ipersensibilità può ulteriormente complicarsi.
Le retrazioni gengivali sono quelle situazioni in cui la gengiva, che prima copriva
perfettamente il dente fino alla zona del colletto dentale, si retrae e scopre prima una parte di dente ancora coperto di smalto, fino a lasciare visibile una porzione della radice che essendo ricoperta da un tessuto più permeabile dello smalto già può comportare lo sviluppo di ipersensibilità.
La retrazione può insorgere sia per problemi legati alla “ruvidità” del dente laddove già esistano lesioni del colletto da manovre di igiene orale scorrette o troppo aggressive.
La terapia in questo caso può diventare complessa quando le retrazioni sono importanti dal punto di vista numerico (ovvero di molti millimetri rispetto alla condizione di salute, nonché estesa su più denti) o dal punto di vista biologico (ovvero quando la gengiva più forte chiamata gengiva aderente si riassorbe quasi completamente).
La terapia consiste in trattamenti chirurgici a lembo dove, dopo il preventivo
“scollamento” del tessuto gengivale che ha subito la retrazione, questo viene riposizionato e bloccato con punti di sutura, in modo che con la guarigione della ferita che ne deriva, il dente torni ad essere correttamente coperto da una valida struttura gengivale.
Nei giorni successivi il paziente deve seguire rigorose norme di igiene orale, che da una parte impediscano l’accumulo di placca dentaria, ma dall’altra non siano troppo aggressive o invasive e possano compromettere la guarigione della ferita.
Anche l’alimentazione deve avvenire con particolare attenzione alla consistenza (niente cibi troppo duri) e alla temperatura dei cibi e delle bevande (niente cibi caldi) che si ingeriscono.
I punti di sutura vengono rimossi, a seconda del tipo di intervento, dopo tempi che vanno mediamente dai 7 ai 15 giorni.
In ogni caso il paziente dovrà seguire dei frequenti controlli in studio durante la
guarigione, in modo da permettere al dentista di controllare e mantenere prive di placca le zone dentali in corrispondenza della gengiva correttamente riposizionata.
Questo tipo di interventi ha una prognosi non sempre semplice da stabilire e il successo dipende da una serie di fattori tra i quali, di estrema importanza, c’è la situazione iniziale di partenza; è cioè importante non arrivare dall’odontoiatra con situazioni già molto compromesse perché avrebbero poi maggiori difficoltà di guarigione corretta notevolmente più elevate.

La terapia endodontica, ovvero la devitalizzazione del dente

Le problematiche di salute che colpiscono il dente possono avere partenza dalle strutture intorno al dente, compromettendo l’integrità dei tessuti deputati al suo sostegno: la gengiva, l’osso, i legamenti di collegamento (il cosiddetto PARODONTO, intorno al dente) oppure possono svilupparsi a carico dei tessuti all’interno del dente fino a raggiungere la polpa dentaria (il cosiddetto ENDODONTO, dentro al dente).
Quando le patologie dentali si sviluppano a carico della polpa dentaria, per ripristinare lo stato di salute del dente si richiede primariamente che la polpa dentaria stessa venga eliminata e sostituita con adeguato materiale da otturazione.
Questa terapia si definisce terapia endodontica, meglio nota come la “devitalizzazione del dente”.
Il termine “devitalizzare il dente” consiste quindi nello svuotare i canali radicolari dalla polpa compromessa e come detto, nel realizzare una otturazione di questo spazio.
I motivi per cui sia necessario praticare una terapia di questo tipo sono molteplici e
principalmente relativi alla presenza di carie molto profonde che coinvolgono la polpa, in conseguenza di traumi dentali sia con frattura del dente che senza frattura, per una perdita della vitalità conseguente a patologie che si sviluppano nell’osso adiacente alle radici dentali.
In ogni caso quando la polpa dentaria viene invasa da batteri (in genere provenienti da processi cariosi) o perde la vitalità per motivi traumatici, si rende necessario rimuovere il tessuto compromesso per evitare lo sviluppo di lesioni infiammatorie all’apice della radice del dente che cronicizzando danno luogo a quello che viene comunemente definito “granuloma”. Il granuloma rappresenta per l’organismo un tentativo di difesa alla diffusione nel resto del corpo di una infiammazione, ma in realtà comporta per il dente delle manifestazioni sintomatiche che lo trasformano in una patologia vera e propria.
Tecnicamente la terapia di devitalizzazione del dente viene realizzata mediante strumenti appositi di diametro crescente che introdotti nei canali radicolari, dove la polpa dentaria è contenuta, la rimuovono sagomando contemporaneamente il canale stesso nella forma più idonea ad essere sigillato mediante idonea otturazione.
Esistono strumenti manuali, utilizzati cioè manualmente dal dentista, e più moderni
strumenti che vengono utilizzati con appositi “trapani” e creano meccanicamente il canale nella forma più corretta. Questi strumenti sono realizzati con speciali leghe contenenti anche titanio e presentano elevata elasticità che permette di realizzare terapie impensabili fino a qualche anno fa.

Durante il trattamento il dente viene isolato con un telo di gomma che impedisce il passaggio di saliva e di microbi all’interno dei canali in modo da realizzare una otturazione canalare quanto più sterile possibile.
L’uso di tutti questi strumenti è diventato imprescindibile se si vogliono eseguire terapie di qualità.
Va ricordato però che le particolarità anatomiche dei denti sono tantissime e tali
particolarità, di forma, dimensione, numero e curvatura dei canali radicolari, rendono ancora oggi molto difficili alcuni trattamenti dal punto di vista endodontico, anche per operatori esperti.
Una volta devitalizzato, il dente resta al suo posto senza subire modifiche di forma, ma in considerazione del fatto che il tessuto che lo compone non viene più nutrito, alcuni elementi biomeccanici variano notevolmente.
Innanzitutto la mancanza di un apporto di sostanze nutritive e di acqua da parte del circolo sanguigno attraverso i vasi ematici contenuti nella polpa dentaria rimossa, provoca una disidratazione del tessuto che comporta una maggior rigidità della struttura dentale, in origine dotata di caratteristiche minime di tipo elastico. Questo porta inevitabilmente ad una maggior fragilità del dente sotto gli enormi carichi cui viene sottoposto.

L’entità di questa fragilità dipende da quanto tessuto dentale residuo resta dopo la devitalizzazione; più la quantità di dente da ricostruire è ampia, più il dente risulterà fragile e a rischio di frattura verticale sotto i carichi masticatori.
Altro aspetto è la perdita del collegamento con il Sistema Nervoso Centrale, che il dente vitale ha proprio attraverso le fibre nervose contenute nella polpa dentale. La perdita del continuo invio-ricezione di dati impedisce al Sistema di coordinare le strutture di supporto del dente, che non trasmette più informazioni sulla sua posizione nello spazio e sulle forze che lo sollecitano durante la masticazione. Oltre a rappresentare un rischio indiretto di frattura del dente, questo aspetto influenza negativamente la resistenza delle strutture di sostegno del dente, spesso sollecitate in modo incoerente e senza protezione da parte delle forze che sul dente si esercitano.
Il dente devitalizzato inoltre non ha più alcuna sensibilità ed eventuali lesioni cariose
secondarie che si manifestino a suo carico, sono in grado di estendersi e di distruggere gran parte della sostanza dentale in maniera assolutamente silente, senza il manifestarsi di sintomi.
Abbiamo già visto che un dente devitalizzato può poi subire nel tempo lo sviluppo di
lesioni infiammatorie croniche a livello dell’apice della o delle sue radici, il cosiddetto “granuloma”.
Questa eventualità può essere curata mediante terapie diverse.
Si può eseguire una terapia di “ritrattamento”, ovvero una ri-devitalizzazione del dente che
viene svuotato, ripulito e risigillato, terapia che presenta una prognosi molto variabile a seconda delle caratteristiche anatomiche del dente, della qualità del trattamento endodontico primario e della qualità del trattamento secondario.
Altra terapia possibile è quella di “apicectomia”, che consiste nel taglio chirurgico della porzione finale della radice dove il granuloma si è manifestato e la cui prognosi dipende dalla precisione e minima invasività dell’intervento, ma anche dalle capacità di guarigione del tessuto osseo che circonda il dente.
In ogni caso ricordiamo, come già detto in altre occasioni, che in odontoiatria è impossibile creare piani di trattamento che valgano sempre e comunque per tutti; ognuno di noi ha nella propria bocca variabili di ogni tipo e le terapie che su un dente possono essere lo stato
dell’arte per il nostro vicino di casa potrebbero essere scorrette su un dente che nella nostra bocca ha problemi simili.
Solo il dentista è in grado di raccogliere tutti i dati e valutare per ogni caso specifico la soluzione più idonea per ogni paziente